sabato 10 luglio 2010

La donna S-oggetto

L'ornamento è un oggetto. L'uomo e la donna sono soggetti. Perchè la necessità di tale chiarimento? perchè spesso ci dimentichiamo di essere soggetti e ci trattiamo un pò troppo come oggetti.
Objets des désirs, pas toujour obscurs
come quelli di Bunuel, mais toujour objets ci percepiamo e facciamo percipere dagli altri, soprattutto nella fattispecie del corpo, che consideriamo tendenzialmente e manicheisticamente, distaccato dal nostro essere più intimo, al quale diamo fortunatamente una natura un pò più soggettiva.
Vivendo in questo inganno dualista ci usiamo o ci lasciamo usare come oggetti, da noi stessi, dagli altri e dalla moda, ma essendo ovviamente dei soggetti non possiamo restarne che insoddisfatti.
Ecco allora che torna utile richiamare ogni cosa alla sua giusta analisi (grammaticale) e ridefinire un pò chi è il soggetto, quale l' oggetto e da chi viene il "complimento oggetto".
Ci sono infatti parti del nostro corpo che sono, sempre per loro natura, più suscettibili di essere percepiti come oggetti del desiderio, e sono proprio le parti che meglio sanno parlare una lingua particolare, quella dell'amore, non universale, ma unitivo e personale.
Ma se il mio corpo non è un oggetto che possiedo io stesso e che tanto meno l'altro può possedere, esso farà parte del mio essere soggetto, anche se rimane spesso percepito più come un semplice oggetto.
Ora farò bene a chiarire agli occhi dell'altro, che mi percepisce mentre cammino, con indosso i miei ornamenti, che voglio essere considerata come un soggetto.
E sarà proprio questa differenza di intenzioni che determinerà il grado di soddisfazioni che otterò dall'integrazione del soggetto che sono, con l'oggetto che mi sembra percepire da me stesso e dagli altri come oggetto: il corpo e le sue parti.

venerdì 9 luglio 2010

Esercizio di stile comunicativo con H&M


Andate sul sito di H&M in basso a destra, trovate l'applicazione "crea il tuo look".
Prima di scegliere i capi da far indossare alla vostra modella, immaginiate una situazione in cui vi piacerebbe indossarli e il tipo di messaggio che vorreste comunicare.
Iniziate a giocare scegliendo i vari abbinamenti. Una volta terminato riflettete: lo stile che avete scelto è coerente con il messaggio che volevate comunicare?



giovedì 8 luglio 2010

Il linguaggio dell'ornamento

L'haute couture a Parigi scende fra le strade. Cerca un maggior contatto con la quotidianità e con il pubblico per la quale è pensata. E fa bene perchè l'ornamento parla, e il suo linguaggio si diffonde dalle passarelle delle sfilate di moda, ma soprattutto dai nostri armadi alle cene fuori con gli amici. Perchè si reputa necessaria una riflessione sul suo linguaggio? Per avere la libertà di usarlo più coerentemente con noi stessi.
L'ornamento ci parla, dalle passarelle, riviste di moda, campagne pubblicitarie e film. La sua comunicazione è studiata per raggiungere la vendita: farcelo comprare. Ma quando esco la sera e vado incontro ai miei amici desidero che il mio abbigliamento parli di me o per me? Non si tratta di recuperare una formalità vuota di contenuti, ma di cercare di usare l'ornamento con maggior consapevolezza, assoggettandolo al nostro valore e non viceversa. La differenza sta tra il parlarlo e il lasciarsi parlare.
Vi ricordate lo slogan della pubblicità dell'Oréal, "Perchè io valgo" ? Posso scegliere un abito perchè io valgo, o perchè valga per me, al mio posto. La prima è una scelta che mi valorizza, la seconda che mi svaluta.
Per usare l'ornamento in modo da valorizzare la mia persona, ho bisogno di individuare prima il mio valore indipendentemente da esso. E questo dipende dall'immagine che ho di me stesso. Alla fine è sempre una questione di immagine. Volenti o nolenti, tutti puntiamo a dare una buona immagine, non perchè siamo persone superficiali, anche se spesso definiamo superficiale chi lo fa, ma perchè teniamo giustamente in conto l'idea che l'altro si fa di noi nella sua tesa e il più della volte desideriamo che non si sbagli, che l'impressione che si è fatto di noi, sia coerente con quella che abbiamo noi di noi stessi.
Possiamo costruire la nostra immagine in base a modelli di cui riconosciamo un valore e a cui aspiramo uniformarci. A volte assumiamo modelli, che ci stanno stretti, ci piacciono, ma non ci stanno perchè non sono coerenti con il valore che siamo indipendentemente dall'immagine che desideriamo avere o dare di noi stessi. E' quando non sappiamo che valore abbiamo in noi stessi che l'opera d'arte che indossiamo prevale sul valore intrinseco della nostra persona e costringiamo l'ornamento a fare più di quanto esso per sua natura possa fare: darci un valore invece di valorizzarci. Quando deleghiamo alla moda la definizione del nostro valore, facciamo di noi stessi delle modelle, nel senso di
mannequinnes, ossia dei manichini.
L'ornamento comunica con o senza di noi. Usare con consapevolezza il suo linguaggio aumenta le possibilità di una comunicazione coerente con se stessi. Lasciarci usare dal suo sistema comunicativo aumenta invece la possibilità di creare immagini ambigue e incoerenti con quello che vogliamo veramente e intimamente. Ora viste le passarelle, che lingua vogliamo far parlare al nostro ornamento per l'estate 2011? Sarà bene definire prima il valore che siamo, Abbiamo un anno di tempo...

martedì 6 luglio 2010

Morire per amore dell'amore

Oggi è la festa di una Santa che sicuramente non va di moda, ma la cui storia, tocca nell'intimo ogni donna e arricchisce ogni questione che possiamo affrontare sulla corporeità e la comunicazione. La sua storia è di un attualità spaventosa. S. Maria Goretti è martire dell'amore, un amore vero, capace di difendere se stesso e l'altro fino alla morte. Patrona naturale di ogni donna o bambina che ha subito o continua a subire violenze sul proprio corpo e che piange intimamente le sue ferite nel cuore dell'amore stesso .

La forza che ha tirato fuori in quel momento mentre a soli 14 anni, stava per essere violentata, è la forza di un amore vero e puro nelle sue intenzioni, così fedele a se stesso, che si rifiuta di lasciarsi trasformare in atto di violenza, di dominio, di possesso, per non snaturare le parole di quell'atto che è espressione di solo d'amore e mai di aggressione.

Santa Maria Goretti, ha preferito morire piuttosto che concedersi contro il suo volere, a quell'abominio dell'atto d'amore che è la violenza carnale. Ma questo non vuol dire che ha cercato lei stessa la morte, il suo carnefice l'ha accoltellata mentre lei difendeva il suo amore per la vita - sua e del suo aggressore l'amico Alessandro – e per l'amore stesso.

La luce della sua storia illumina il nostro riflettere sugli atti d'amore e le loro intenzioni. L'aggressione, la ricerca di soddisfazione di sé senza rispetto della volontà dell'altro è violenza, ma possiamo spingerci ancora più in là chiedendoci se ogni nostro atto è mosso dal desiderio di donare noi stessi mentre chiediamo all'altro di donarsi a noi. La natura dell'atto d'amore non è espressione di donazione reciproca? Quanto cerco il bene mio, dell'altro e dell'amore stesso mentre pronucio le parole dell'amore nei miei atti? E' una domanda che riguarda l'amore tutto intero. E la lezione che ci offere questa piccola adolescente delle Ferriere con la sua vita, è quella di una profonda ricerca di purezza di intenzione e di atti che si muove da un amore profondo per l'amore stesso, ed è il significato della castità cristiana. La castità non è un cintura che si usava nel medioevo e che oggi è simbolo di repressione sessuale della donna, per cui le si vogliono privare i piaceri della vita. La castità è amore profondo dell'amore stesso inteso nella sua purezza originaria e ricercato in ogni atto e in ogni intenzione e non amore di se stessi a discapito dell'altro o negazione dell'amore a se stessi. Ed è per questa prospetti va di cammino verso un amore sempre più fedele a se stesso, che si può definire virtù in senso cristiano, perchè una virtù si coltiva, e in essa si progredisce camminando sulle sue traccie, in ogni tempo e in ogni luogo, traducendole nello spazio della propria esistenza, della propria corporeità, del proprio essere nel mondo liberi e capaci di amari.

Una scelta del genere oggi, è una scelta che però sembra condurre alla morte, non interiore anzi, ma ad una morte esteriore, una morte d'immagine, agli occhi di coloro che non la conoscono o ancora non sono rimasti affascinati dalla sua bellezza o la rifiutano perchè va contro ogni egoismo umano. Molto abbiamo da imparare da questa quattordicenne coraggiosa, che ha tanto amato l'amore e la sua forma più elevata di espressione corporale, da dare la sua vita perché questo non si realizzi senza la purezza di intenzione dal quale nasce e con la quale si muove sempre.


Link: http://www.santamariagoretti.it/vita.html
su google map: Casa del Martirio si S. Maria Goretti, Frazione Ferriere, Latina, LT 04100, Italia





domenica 4 luglio 2010

Curvy on the runway


Finalmente sulle passerelle dei grandi come una di loro. Crystal Renn la taglia 44/46 più famosa del mondo è comparsa in queste settimane sulle passarelle di Chanel Saint-Tropez come una modella qualunque, anzi essendo l'unica formosa tra le tante, si fa notare sempre di più, e forse è proprio questo il segreto del suo successo.
Essendo stata la prima a non volersi adeguare alle condizioni, che sembravano serratissime, del mondo della moda, per affermare se stessa, e il suo corpo senza scendere a compromessi con il processo di autodistruzione innescato dall'anoressia. E forse è stato proprio l'incontro con la sofferenza, che le ha dato la forza di accettare e far accettare a tutto il mondo, la propria corporeità bella anche se formosa.


Come tutte le modelle viene ingaggiata da un agenzia all'età di 14 anni, che riconosce la bellezza e il potenziale dei suoi lineamenti mediterranei, ma le sentenzia "Devi dimagrire almeno 20 chili". Crystal con la caparbietà di un adolescente, non si lascia sfuggire la realizzazione di uno dei più grandi sogni adolescenziali femminili, per cui si mette in riga e 20 chili siano, da perdere anche a costo di sentirsi debole, di non reggersi più in piedi in 49 chili x 168 cm"Ero talmente malata che perfino camminare mi era difficile. Dovevo fare un cambiamento".
Poi finalmente arriva il momento della consapevolezza, quel processo di autodistruzione non può essere l'unica strada per realizzare il suo sogno. Ritorna in carne e si presenta all'agenzia, che ovviamente non l'accetta, ma Crystal non demorde e partecipa ad una trasmissione televisiva molto famosa in america e racconta la sua storia. Viene notata da Steven Meisel nel 2004 che la vuole per una campagna di D&G. Nel giro di qualche anno è richiestissima da tutti i maggiori stilisti. E Vogue.it, dedica tutta una sezione alle formose (http://www.vogue.it/vogue-curvy).
Oggi Crystal combatte i suoi vecchi nemici l'anoressia e la sottile mancanza di autostima femminile, che è il terreno fragile di battaglia per molte altre frustrazioni femminili. "Si onesta con te stessa, e smettila di peroccuparti di quello che pensa il resto del mondo" dice Crystal a tutte le donne, davanti a un buon piatto di pasta che ha il piacere di gustarsi, perchè si può mangiare di tutto
, purchè il cibo sia sano e si assuma con regolarità. "E' tutta una questione di moderazione" e di sincerità. Malattie come l'anoressia o la bulimia, spesso iniziano come semplici disordini alimentari, mescolati in pentola con bassa autostima e piccole o grandi frustrazioni nascoste. Il cibo, essendo una di quelle cose che ci provocano un piacere, spesso lo usiamo come altro da un semplice e gustoso nutrimento, ed è proprio quando usiamo una cosa per un altra che perdiamo il piacere naturale che questa può procurarci.
Il cibo non può colmare carenze affettive, intimi desideri di realizzazione personale che pensiamo di non essere in grado di raggiungere, non può fare quello che solo noi possiamo fare: mettere mano alla nostra vita e andare alla ricerca della causa delle nostre insoddisfazioni, nel momento in cui cerchiamo di consolarci, per risolverle. Il cibo, come tutti i piacieri, assolve degnamente e senza effetti spaventosi il proprio compito, quando lo trattiamo per quello che è veramente e non come un sostituto. La prossima volta che entreremo in cucina non per fame ma alla ricerca di consolazioni, consideriamolo un buon campanello d'allarme, non per la nostra linea, ma per ascoltare più intimamente noi stesse : Se sto cercando consolazione, forse che c'è qualcosa che mi sta generando frustrazione in questo momento nella mia vita. Una tale sincerità con noi stesse, può farci dimenticare che ci troviamo in cucina per mangiare, e magari farci trovare una soluzione più mirata per alla nostra insoddisfazione.
E stasera prima di uscire, mentre affrontiamo il dramma del cosa-mi-metto-?, prendiamo una porzione di specchio, che ci incornici solo il volto, e guardiamoci negli occhi sorridendo, cerchiamo di vederci nel profondo, incontreremo una più fedele alleata per la serata, la nostra bellezza interiore!

sabato 3 luglio 2010

Excursus storico: l'ornamento prima cosa ha detto

"Ogni civiltà e ogni periodo concepiscono il corpo in maniera diversa assegnando significati simbolici a determinate sue parti" (Dorfles-Vattese). L'abito è icona dei tempi. Non sono sempre gli stilisti a determinare cosa indosseremo. In fondo loro fanno semplicemente delle proposte, siamo noi poi a scegliere cosa ci rispecchia maggiormente, cosa definisce il nostro stato d'animo più degli altri o i nostri più intimi desideri in un determinato periodo storico, sotto determinate influenze e circostanze. Alla fine sono gli stilisti a seguire il nostro gusto.
"Nella specie animale di solito è il maschio a recare configurazioni più spettacolari per attirare la femmina, la razza umana ha sovente ribaltato questi ruoli: quasi ovunque è alle donne che spetta il primato dell'ornamento, ma il modo in cui ciò è accaduto mette in luce la relatività delle consuetudini" (Dorfles-Vattese). Un discorso sull'ornamento e la corporeità non può e non deve interessare solo la donna, perchè è tra i due che si instaura una comunicazione, i cui codici - perchè questa sia efficace - dovrebbero essere ben chiari ad entrambi. L'analisi di come questi siano stati usati in passato è l'oggetto di questo breve excursus, prima di iniziare l'analisi del nostro codice ornamentale contemporaneo.

Anni 10 cappelli giganteschi, gonne lunghissime fino a coprire le caviglie, non sono certo ornamenti adatti a certi luoghi di lavoro.


Anni 20-30 già si può cominciare a notare un desiderio di mascolinità e indipendenza, nelle pettinature, nei tagli corti, nei cappelli che si ristringono ad incorniciare il volto, a cui si dà più importanza perchè lo sguardo della donna è alla ricerca di un ruolo più rilevante nella società. Con in mano una sigaretta lunguissima, tra le nuvole di fumo, su i tavoli dei grandi del mondo, dice la sua, senza rinuciare alle proprie armi di seduzione, che comincia ad usare non solo per conquistare il proprio amato, ma anche per raggiungere scopi personali nei luoghi di potere in cui si aggira. I tagli degli abiti si razionalizzano, "posso anch'io ragionar con voi tra le mie forme", sembra affermare la donna di quegli anni, in una comunicazione di sè, che cerca un dialogo più paritario con luomo.


Negli anni 40 sono di nuovo sole, costrette ai lavori anche più duri, mentre i mariti e i figli maschi più grandi sono chiamati alla guerra.


Anni 50 ritorna la pace, i colori pastello, le ampie gonne per ballare. I mariti sono tornati a casa. Le famiglie riescono a riunirsi felicemente davanti a qualunque cosa, che sia pure una scatola parlante. I seni riemergono incorniciati. Compaiono i primi tacchi a spillo. La seduzione veste fino ai piedi.


Anni 60
riemege il desiderio di indipendenza dei primi del novecento. Il tailleur, abbigliamento di lavoro maschile, ora è anche negli armadi delle donne. Nasce la prima minigonna, questa introdotta dalla stilista Mary Quant, ma definitivamente scelta da una donna che si scopre sempre di più, che si vuole togliere di dosso quegli imperativi formali, che la costringono in un ruolo che non sente più di voler assolvere (o deve ancora necessariamente assolvere?). E' una donna giovane e confusa, sta cercando l'uguaglianza nei diritti con gli uomini e comincia con l'uniformarsi ad essi nell'abbigliamento, ma questo è solo un ornamento e non realizzerà pienamenta la sua profonda sete d
i uguaglianza.


Anni 70
non ci sono più tante differenze tra i capi maschili e femminili, tutti, adulti, giovani e bambini, hanno finalmente un capo in comune: i blue jeans.


Anni 80 il desiderio di uniformità nell'abbigliamento dell'uomo e della donna culmina nei pantaloni larghi, nelle spalle allargate di giorno nei luoghi di lavoro, mentre di sera si torna a sedurre in aggressivi tagli squadrati.


Anni 90 le forme si am
morbidiscono, prevale lo stile casual, abbonda il tempo libero.


"I mutamenti negli stili rispecchiano quasi sempre cambiamenti profondi nella mentalità" (Dorlfles-Vattese). Oggi guardandoci intono, cominciando dagli ornamenti, cosa possiamo dire sulla nostra mentalità?

venerdì 2 luglio 2010

Corporeità e Ornamento

Giugno, luglio e settembre, sono i mesi della moda "Primavera-Estate", non quella dell'anno in corso, ma del prossimo, il 2011. I fashion addicted, lo sanno bene e proprio in questi giorni si aggirano tra capitali, siti e blog, per scrutare tutte le possibili "visioni future" da sfruttare in questo periodo di saldi. And I confess, anch'io sono una di loro, capace di contemplare un paio di scarpe come una vera opera d'arte, senza rinunciare però all'intelligenza di volerne percepirne il sottile, e a volte troppo sottile, messaggio subliminale. Ornamento, non è dunque sempre Delitto e in questo caso, quale occasione migliore per riflettere sulla corporeità e la comunicazione cominciando proprio dai suoi ornamenti, che troppo spesso ci dimentichiamo essere molto meno importanti del corpo stesso ed i come lo trattiamo.

Oscar Wilde diceva "One should either be a work of art or wear a work of art". A volte la vera bellezza è solo una questione di scelta fra queste due semplici strade. Quale sceglierò stasera prima di uscire?


giovedì 1 luglio 2010

Do I really have to wear this?

Posso veramente indossare tutto quello che mi viene proposto sulle passarelle, senza pensare a quello che comunico? Il blog di Unum Velle, propone uno sguardo critico sulla moda in concomitanza con le sfilita Primavera-Estate 2011.

lunedì 31 maggio 2010

Hello Goodbye

Rispondo qui ad un chiarimento che mi è stato chiesto riguardo all'ultima entrata "When i'm 64" e con questo articolo si concludono le brevi considerazioni fatte fino ad esso sul sessantotto e la rivoluzione sessuale. Parlerò dunque di due cose: perché l'amore verso se stessi non è slegato anzi va di pari passo con l'amore verso l'altro, per rispondere al chiarimento richiesto; e poi perché dire una cosa, ma intenderne un altra o non dirla affatto, significa innescare una bomba ad orologeria, perdendo di vista il timer.
Partiamo dalla prima: amare se stessi vuol dire prendersi cura di , ascoltarsi nei propri bisogni e necessità. Amare se stessi vuol dire tenere alla propria vita nella sua totalità a cominciare dalla propria corporeità. Amare l'altro vuol dire donarsi come un bene liberamente all'altro e lasciarsi amare dall'altro mentre noi ricambiamo amando l'altro, tanto che nella reciprocità non sono più io che amo me stesso, che mi prendo cura di me, che mi ascolto nei miei bisogni e necessità, ma è l'altro che lo fa per me, mentre io lo faccio per lui. Nel momento in cui dono me stesso all'altro, mi consegno come qualcosa di molto prezioso, bello e intatto pur nelle sue fragilità, ma se non mi prendo cura di me stesso, se mi maltratto fisicamente e mentalmente, se sono arrivato ad odiarmi per alcuni errori che ho commesso, e ad identificarmi con essi tanto che non ho più fatto un errore, ma sono io stesso un errore, ecco che dono all'altro qualcosa di molto prezioso, ma proprio da me stesso maltrattato e sottovalutato. E' vero che a volte l'esperienza d'amore che ci viene dall'altro è proprio quella di sentirci amati come nessun altro aveva mai fatto prima, di scoprirci amati e grati per l'amore dell'altro e questo può portarci a cominciare ad amare nuovamente noi stessi, proprio perché un altro ci ama. Nessuna delle due strade ha priorità sull'altra, l'amore tocca e cambia intimamente da qualunque parte arrivi. Logicamente però si può comprendere come una volta trovato l'amore della propria vita, il desiderio sia quello di consegnargli il meglio di noi. A questo punto sento io necessario un altro chiarimento: consegnare un se stesso amato, non vuol dire essere rimasti intatti ai colpi duri che può infliggere una grande sofferenza, subita o causata, vuol dire aver fatto di quella sofferenza un trampolino di lancio per saltare ancora più in alto, e per fare questo bisogna imparare a perdonarsi e credere nuovamente in se stessi, nel proprio valore intrinseco, nella propria capacità di amare e amarsi, non per quello che facciamo, ma per quello che possiamo fare se impariamo dai nostri errori. Oggi il benessere per il benessere stesso, ci induce ad allontanare, ma soprattutto negare - e questo è il vero danno - la sofferenza. A soffocarla rimpinzando vuoti, di piaceri, fino a che anche il piacere stesso ci disgusta o lo usiamo per farci del male, invece che farci del bene. La sofferenza non va evitata o sepolta viva, va affrontata, perchè è proprio quel muro che una volta superato ci insegnerà ad amare l'altro e noi stessi. A volte, purtroppo, pensiamo che ci siano sofferenze che abbiamo subìto o inflitto - il tradimento per esempio - a cui non possiamo più rimediare. La maggior parte di noi, non fa del male all'altro perchè vuole, ma perchè ci si ritrova e non sa come mai. Perdonare se stessi, non identificandoci con il male che abbiamo arrecato all'altro è il primo passo per avere la forza di accettare i propri errori - amandoci - e vedere si con le lacrime, ma con chiarezza, cosa ci ha portato a farli, e spesso sono proprio le cose, che non vogliamo dire a noi stessi o all'altro che ci portano a fare questi errori.
Ecco che veniamo al secondo punto: le cose che non diciamo, le nostre fragilità, le nostre debolezze più intime, le cose che ci scopriamo capaci di pensare, di voler fare e a volte di ritrovarci a fare e ci fanno vergognare, non le vogliamo vedere, le consideriamo il nostro lato oscuro che l'altro non può e non deve conoscere, e questo pensiero lo continuiamo ad alimentare in noi, in piena solitudine con noi stessi. Tutto ciò ci chiude in noi stessi, ci concentra totalmente su noi stessi, in una forma contraria a : ci siamo sempre e solo noi in positivo o in negativo. Tutto ciò ad alcuni potrà sembrare un eccesso, in realtà è il potenziale di ogni piccolo dramma, non affrontato, non superato e peggio ancora nascosto. Allora nascondiamo di non essere del tutto soddisfatti della nostra vita, del lavoro o degli affetti, "perchè dirlo all'altro? lui mi ama, dicendolo lo farò soltanto soffrire" - e qui produciamo il primo dispositivo per la bomba, nascondiamo per mancanza di fiducia nell'amore dell'altro "se lo sapesse non mi amerebbe più" - e la fiducia è proprio questo, sperare ed accettare la comprensione dell'altro. Dire la verità a se stessi e all'altro è una forma elevatissima di rispetto e di fiducia in se stessi e nell'altro. E le cose non dette con parole escono fuori in altre forme - malattie psicosomatiche, alcune forme di depressione, anoressia e bulimia - e il circolo vizioso che ci porta ad odiare se stessi ci fa odiare anche coloro per cui abbiamo nascosto quei piccoli drammi così la bomba esplode e la maggior parte delle volte non si sa il perchè, perchè il piccolo dramma, o la piccola insoddisfazione si è fatta gigante per la mole di cose che gli abbiamo accumulato sopra.
Tutto ciò è quello che nessuno mai vorrebbe per se stesso, tanto meno per l'altro, così che il giusto amore per stessi va di pari passo con l'amore per l'altro e la verità è la sua forma privilegiata. Anche oggi ci sono delle guerre e sono tutte "psichedeliche" come quella in Vietnam e non si combattono solo in territori geografici, ma dentro ognuno di noi e ci gridano che il modo migliore per cercare la pace è farla prima o al più presto con noi stessi, per offrirla poi anche agli altri.


di Federica Colombo

lunedì 17 maggio 2010

When i'm 64

"Mi amerai ancora quando avrò sessantaquattro anni?". Quando inizia un amore, non c'è dubbio che vorremmo durasse in eterno. Ma oggi come oggi, guardiamo a questo intimo desiderio come ad un utopia, un bell'ideale si, ma irraggiungibile, non tanto più solo per l'altro - mi sarà fedele? - ma ancora più per se stessi - gli sarò fedele? - perchè così tanta sfiducia? Consideriamo l'amore solo come un sentimento,il sentimento che mi conduce ora verso uno, ora verso l'altro, mi storidisce nel suo andare e dondolando inatanto, piano piano raschia il terreno di fiducia, quel terreno che dovrei coltivare per far si che nasca l'amore vero e duraturo. Dal momento che spesso ci scegliamo un pò come dei pasticcini, buoni da gustare, ma appena passa la voglia di cioccolata, arriva quella della crema, è normale che io non chiederei mai alla mia voglia di cioccolata di essermi fedele in eterno, perchè sò che è una voglia e per sua natura segue una guida dondolante. Allora di fronte alla mia ferma risoluzione di amare e di amare fino alla fine, a chi chiederò di aiutarmi a restare fedele a quell'amore che sto per scegliere per sempre? Forse c'è una volontà nell'essere molto forte, che è capace di accendere un fuoco anche quando si è spento. E forse è proprio, dell'amore, quell'aspetto che è tutto nostro, che ci compete più precisamente. Se amo, perchè qualcosa mi induce a farlo, quel qualcosa ha merito quanto me di quell'amore, mentre se amo indipendentemente da quel qualcosa, il merito per l'amore messo in campo è tutto mio, o almento in gran parte. La mia voglia è diventata volontà per cui non voglio la persona che ho scelto solo perchè soddisfa delle mie voglie, ma perchè ho scoperto che è parte di me ed anzi è così grande in me che se non c'è io non ci sono più, e per questo la voglio e la voglio così tanto nella mia vita che sono capace di fare di tutto per riaccendere quel fuoco, che sembra oggi estinto. Certo una volontà così è una volontà che ha fiducia prima di tutto in se stessa, nel potere che ha di partecipare a questa forza che lo invade e che è amore. L'esperienza d'invasione dell'amore è ciò che ci spinge a ricercarlo ed è la stessa che ci spinge ad alimentarlo e a ritrovarlo una volta perduto. Ecco nuovamente la volontà di amare che è tutta nostra. Ecco che nella danza dell'amore mentre prima dominano nella scena i sentimenti, le luci i bagliori che nascondono tutte le ombre e i difetti, arriva il momento del ballo unico della volontà, che nel buio vede il suo amore così com'è e nuovamente lo sceglie con vero amore, perchè l'amore che prova è più grande dei difetti dell'oscurità che vede. Un amore capace di amare anche nel buio della nostra debolezza, non è un amore che ci dà fiducia? Quanto ci è difficile, aprirci all'altro, spogliarci interiormente per mostrarci per quello che siamo veramente, senza nascondere anche i più piccoli difetti, limiti e debolezze, dentro maschere ingobranti che tanto prima o poi ci sfuggiranno di mano. Ci è molto difficile perchè abbiamo paura che l'altro non ci possa più o smetta di amarci appena scopra chi siamo veramente. Ma quella che è la mia interiorità come potrò mascherla? O crearle un ambiente idoneo in cui si sveli? L'ambiente di fiducia è una luce che emana un calore che mi permette di non aver paura di mostrarmi per tutto quello che sono e così finalmente incontrare l'altro nella verità di me stesso, senza finzioni.
Spesso costringiamo un amore, a nascere in un ambiente ostile, dove non ci sia un clima di fiducia nè nell'altro, nè in me, nè nella potenza dell'amore stesso, capace di legare e tenere insieme due esseri in eterno. Spesso giriamo nel mondo alla ricerca di un amore unico che non ci abbandoni mai, perchè sappiamo che il nostro essere va così al di là anche di noi stessi che già far intraprendere questo viaggio ad uno soltanto è tanto. Altrettanto spesso però ci inganniamo, perchè non vogliamo restare delusi - non vogliamo soffrire - che una persona che ci possa amare per sempre, così come siamo, non esista, e i primi a confermarlo siamo noi stessi - neanch'io sono capace di amarmi così come sono, come potrebbe amarmi un altro? - eppure quella voce che dentro di noi ci spinge a cercare l'amore non si accontenta di promesse passeggere, non si "spoglia"intimamente senza fiducia, non è capace gisutamente di donare tutto se stesso, dopo un incontro di qualche ora e continuamo a soffrire e a vivere continue delusioni, perchè quella voce non si accontenterà mai di mezzi amori, ne vorrà continuamente uno solo e per sempre.

lunedì 10 maggio 2010

Help!


In occasione della Biennale di Architettura del 2008, il gruppo olandese DroogDesign presentò, all'Arsenale di Venezia, l'istallazione dal titolo "S1ngletown"(1). Una serie di manichini, isolati ognuno sotto il proprio occhio di bue, etichettati secondo vari "status di singletudine" - opportunista globale, vedova indipendente, appena divorziato, ect - abitanti ciascuno di un proprio spazio, senza nessuna possibile o stabile comunicazione con l' altro. Lo status "Alone, together", per esempio, lavora in uno studio di design molto alla mano, vive da solo in una casa costruita espressamente per single, celebra il programma delle pulizie per mantenere puliti ed in ordine gli spazi comuni e crede nella collaborazione tra singles, ma alla fine vive solo pur vivendo insieme ad altri. Chi di noi ha fatto un esperienza come studente erasmus o fuori sede, può facilmente riconoscere questo spazio di solitudine che si crea a volte pur vivendo insieme ad altri, perchè alla fine è molto difficile cercare di incastrare le varie "libertà" e abitudini, capire o sopportare le "invadenze" dell'altro - quello che per uno è "una questione di rispetto" per l'altro è "rivendicazione fondamentale della propria libertà" - e si finisce col fare del frigorifero un cavò. Ciascuno imperatore unico e suddito solo di se stesso, rivendica il proprio sistema di regole che tutti devono insindacabilmente rispettare, in un anarchia di comportamenti liberali, che si rivela essere una trama di regole su regole, per cui ogni nuovo inquilino porta le sue nuove regole, e ogni violazione al sistema di libertà è dichiarazione di guerra e attacco ad personam, perchè ognuno si identifica con il proprio sistema di regole (la tautologia della frase collabora a rendere inquietante l'idea). In un clima del genere è facile sentirsi soffocare e decidere di prendere in affitto una casa tutta per , o troncare una relazione alla prima crisi, per ritrovarsi poi nuovamenti liberi ma soli. Come dice il protagonista di About a boy - citando il testo di una canzone di Bon Jovi - "No man is an island" e tutta questa battaglia per la "libertà assoluta", ci l'allontana sempre di più dall'altro e, ci chiude nei nostri egoismi, ma non riesce a zittire il pronfondo desiderio di condividere la nostra libertà con un altro, di accogliere una presenza diversa da noi stessi nel nostro piccolo isolotto. Per alcuni questa esperienza di solitudine affettiva, può essere così dolorosa da portarli a spodestare totalmente il proprio "io imperatore", per accogliere totalmente quello dell'altro e convertire l'amore in dipendenza e spersonalizzazione. Per altri significa trovarsi affetti e consolazioni non umane - "il mio ragazzo è il mio lavoro", "il mio migliore amico è il mio cane lui almeno non mi tradisce" - e per quanto possiamo felicemente amare un lavoro o un cane questi non sono mai delle persone e ripiegare non è mai una soluzione, ma sempre una condanna a mezza soddisfazione. Per non finire come i protagonisti dei film di Lars Von Trier - che ingannati e manipolati per la loro "ingenua" bontà o sono condannati a morte o diventano più cattivi e spietati dei propri carnefici(2) - diventa basilare trovare quell'equilibrio, che ci porti a ridimensionare il nostro "io" per accogliere l'altro, rimanendo però fedeli alla profonda verità su stessi. E questa non si identifica con il nostro sistema di regole, ma con il nostro essere liberi e relazionali allo stesso tempo, senza che le due cose entrino in contraddizione tra di loro. Solo così è possibile sperimentare la libertà nell'amore, che non è rivendicazione dei propri diritti sull'altro, ma scoperta e significato sempre nuovo del nostro essere in relazione con l'altro, pur nella piena realizzazione e affermazione di . In questo modo la mia libertà si dilata per e verso l'altro, e mentre include il suo spazio nel mio, si assicura anche il proprio spazio, in quell'ambiente di fiducia e calore che chiamiamo amore. Nonostante le previsioni che nel 2026 un terzo della popolazione che vive nelle metropoli abiterà da sola, penso che le grida degli abitanti di singletown saranno presto ascoltate: "When i was younger, so much younger than today, I never needed anybody's help in any way. But now these days are gone, i'm not so self assured...My indipendence seems to vanish in the haze, i know that i just need you like i've never done before" quello che ci serve ora, è solo rinquadrare interiormente due concetti: quello di "libertà" e "amore" .




Indipendent Widow
Works her mind at the brain gym

Lives far away from her kids and grandkids
Celebrates software which allows free calls over the internet

Believes that older people can live safely alone

Seasoned Professional
Works where he lives
Lives where he works
Celebrates local artist by showcasing their work at his home art gallery
Believes that everyone is ultimately answerable to only one boss: t
hemselves

[in alto a destra]
Recently Divorced
Works nine to v.
Lives alone (after decades with a family)

Celebrates new-found freedom, but also struggle with loneliness
Believes in the possibility of another long-term, stable relationship
[in basso a sinistra]
100K+ Exec
Works hard 24/7
Lives in the office and on the plane
Celebrates nano-tech, wrinkle-free (clothing) perfect for traveling
Believes in running a home like a business, by automating and outsourcing everything


Global Opportunist
Works on remaining a student for as long as possible
Lives wherever his studies take him
Celebrates freedom
Believes one day he will settle down. Maybe.



(1) http://www.s1ngletown.org/

(2) La protagonista di Dogville, Grace, per sfuggire da un destino di dominazione sugli altri, perchè figlia di un famoso gangester, permette qualunque meschinità agli abitati di una piccola comunità, pur di accettarli così come sono, e una volta sfruttata e violentata da coloro che aveva deciso di redimere con il suo "amore", ritorna dal padre per chiedere vendetta.

di Federica Colombo

venerdì 7 maggio 2010


UV+ CP Unum Velle e Centro Pascal
Pascal Film'n'Food sul film di Ang Lee
"Taking Woodstock"


"A generation began in his backyard". Il protagonista Elliot Tiber designer di New York, costretto a tornare a casa in periferia, per aiutare i genitori a gestire il loro piccolo motel, sente alla radio che il paese vicino ha negato, ad un festival di musica hippie, il permesso di occupare il loro terriotorio. Elliot vedendone un affare per il proprio motel, offre la sua disponibilità ai produttori. Dopo tre settimane, il suo motel è invaso da mezzo milione di persone dirette verso la fattoria di White Lake (NY), ed Elliot si trova travolto in un esperienza che cambierà la sua vita e definirà una generazione. Quali sono stati gli effetti di quei propositi tanto allettanti, di pace e amore propugnati da tutta una generazione?

Giovedì 13 Maggio ore 13.45
(Aula Tesi)
presso l'Università Europea di Roma in Via degli Aldobrandeschi 190, 00163 Roma

lunedì 3 maggio 2010

Nowhere Man

L'uomo diviso in se stesso è un uomo che non appartiene a nessun luogo. Come i non-luoghi di Marc Augè, sono privi di identità, relazionalità e storia, negare queste tre caratteristiche all'essere equivale a negarlo in sè. Tra gli slogans di quegli anni, scritti sui muri di Parigi, appaiono esemplificativi di un viaggio verso questo non-luogo del sé i: "Siate bravi e crudeli antropofagi"; "Frontiere = repressione"; "Delle frontiere ce ne freghiamo"; "La libertà del prossimo, estende la mia all'infinito"; "Riconquistiamo l'individualità. Viva il furto"; "Che cosa è un maestro, un dio? l'uno e l'altro sono l'immagine del padre e svolgono una funzione oppressiva per definizione"; "Ne maestro ne dio. Dio sono io"; "Non è soltato la ragione di millenni che esplode in noi, ma la loro follia. E' pericoloso essere ereditieri";"La cultura è una bolla di sapone". Dopo aver reciso ogni legame con il passato, ucciso qualunque forma di "paternità" e sconfinato la propria libertà su quella degli altri, l'antropofago - che ricorda tanto l'immagine dell'Uroboro, il serpente che si morde la coda, usato da Nietzsche in Così parlò Zarathustra - rimane da solo con se stesso, e lì non c'è che annoiarsi in un "eterno ritorno dell'uguale", e morire sotto il peso angosciante di una storia che si ripete tornando sempre al "grado zero", imponendomi una riscrittura totale, globale negandomi di volta in volta le basi su cui ricominciare. E se ogni volta neghiamo le basi, su quali basi ricostruiremo? Su basi sicuramente diverse, ma pur sempre basi. L'importante è che ci sia una base e che questa sia buona.
La frontiera, il confine, se significa limite che distingue l'identità di ciò che è altro da me, diventa fonte di mistero e oggetto di conoscenza, che mi fa uscire da me stesso, in modo che il dimenticarmi di me, non sia un negarmi, ma un aprirmi a ciò che mi è simile in dignità, ma diverso in identità. Ed è così dall'incontro con l'alterità che si può generare la novità e uscire dalla noia sartriana. L'uomo diviso in se stesso è l'uomo che per abitare tutti i luoghi - estensione del sè - finisce col non abitarne alcuno e per vincere il senso di angoscia del vuoto che ha ormai dentro di sè - l'inquietante "grado zero" - si rifugia nell'onirico, nell'apatia che lo allontana proprio da quella realtà che dovrebbe e potrebbe riscrivere con coraggio. L'uomo oggi, non ha forse bisogno di sentirsi dire che non è una bestia, che è fatto per cose grandi, che viene da un luogo e va verso un altro luogo, in cui la sua identità non si divide, nel divenire, ma si compie e si arricchisce in continuità con l'essere? Non un superuomo, incurvato sotto il peso di farsi dio di se stesso e degli altri, ma semplicemente e meravigliosamente uomo, capace di dialogare con il proprio passato senza ucciderlo, cogliendone con intelligenza il buono costruito dai suoi predecessori e capace di rimodellare coraggiosamente se stesso e non riscriversi continuamente, in una lotta michelangiolesca con l'idea di vero uomo insita nel marmo del genere umano. Così l'uomo scultore, e non distruttore, si proietta verso un divenire che lo conduce continuamente alla novità e allo stupore, in un clima di responsabilità - nel senso etimologico di risposta - verso il presente, resa possibile da una rinnovata fiducia in se stessi come genere umano. Io credo nell'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio, non dio di se stesso, capace di guardarsi allo specchio senza romperlo, perchè al di là della sua triste e possibile frammentazione, vede il proprio potenziale relazionale e identitario, vede la sua grande capacità d'amare.

di Federica Colombo

venerdì 30 aprile 2010


UV+ CP Unum Velle e Centro Pascal

sono lieti di presentare il libro di Tonino Cantelmi e Michela Pensavalli
"Scusa se non ti chiamo (più) amore"


Il libro lancia una sfida, pesante ma da affrontare: come scegliere il partner e vivere felici. Un libro non sull' amore ma sui modi di amare anzi, sugli stili di amore. Lidea di questo libro nasce proprio dalla consapevolezza del potere che ha Eros di influenzare il benessere psicofisico di un individuo, e della difficoltà in cui spesso ci troviamo per riuscire a capirci qualcosa. Lintento - dicono nella prefazione i coautori - è quello di fornire una prospettiva di speranza a quelli convinti che nessuno ha mai voluto bene a loro e nessuno li amerà mai in futuro, o a chi vive con l'angosciante dubbio di non essere capace di amare.
(Rif. dal sito: http://www.toninocantelmi.com/web/article106.html)

E' previsto l'intervento di entrambi gli autori. Chi volesse fare delle domande è pregato di inviare una e-mail al seguente indirizzo: unumvelle@gmail.com e saremo lieti di farle prevenire agli autori

lunedì 26 aprile 2010

Lucy in the Sky with Diamonds

Che sia o no l'acronimo di LSD, Lucy in the Sky with Diamonds è certamente una bella canzone e il poter accedere ad un mondo amplificato che sia fonte di ispirazione per scenari fantastici e inaspettati che dilatano il mio essere verso la sensazione di una maggior unione con l'altro, è alquanto piacevole e desiderabile. Quello che mi chiedo però è perchè per fare questo viaggio, per sentirsi o seguire "the girl with caledoscopie eyes" sulla scia di Alice nel paese delle meraviglie, devo per forza usare una sostanza che sia al di fuori di me e a cui delego il mio potenziale unitivo e creativo? L'LSD è una droga che non va più di moda, ma la sua diffussione di massa e propaganda sostenuta dai suoi scopritori e sperimentatori, ci ha lasciato in eredità delle sottili convinzioni. Chi l'ha scoperta (Alfred Hoffman 1938) l'ha dichiarata una "droga sacra". Chi l'ha studiata, ne ha poi fatto un "sacramento" per una nuova confessione religiosa (Timothy Leary, Lega dello Sviluppo Spirituale, 1966). Gli scrittori della Beat Generation, che l'hanno usata, ne hanno esaltato l'assunzione quale veicolo privilegiato per accedere al proprio potenziale creativo. Tutto ciò sembra formare la sottile convinzione che per essere creativi e ampliare le proprie percezioni, si debba ricercare qualcosa al di fuori di sè e che l'esperienza mistica o di amore fraterno sia riducibile alla "sensazione di fratellanza", percepibile solo o preferibilmente assumendo sostanze alluginogene. L'esperienza della droga ci fa percepire la dilatazione dell'essere, ma a scapito della chiusura o alterazione di alcune facoltà dell'essere stesso. Uno dei presupposti del vero amore, è il suo essere un atto pienamente libero e perchè la donazione di me stesso sia veramente libera ho bisogno prima di possedermi, altrimenti sto donando qualcosa che neanch'io con me stesso sono in grado di garantire. Sarebbe come voler fare un regalo del quale però non posso dare alcuna garanzia, se si rompe, se ci sono problemi non è possibile reclamare verso nessuno. Una società profondamente fraterna non si può costruire sulla base di individualità che non si possiedono o che si annullano a favore di una collettività che finisce col cadere nel vuoto e nello sconforto generale. L'amore si costruisce a partire da due individualità ben definite che possedendosi, liberamente decidono e si garantiscono l'unità. Due individualità che affermando se stesse reciprocamente si innalzano in un unità di due, che è così corposa che non si limita a sommarli in un logico, 1+1=2, ma misteriosamente li esalta elevando ad individualità anche l'amore che si crea tra i due, per cui 1+1=3. L'esperienza di abbandono e di perdita del sè nell'altro che caratterizza l'amore, non può presupporre la limitazione di alcune delle mie facoltà, ha bisogno di tutto me stesso per innalzarmi, altrimenti mi porterà a sperimentare la mia trascendenza a pezzetti, come un immagine a cui mancano dei pixels per un difetto di trasmissione. Inoltre delegare al di fuori di sè stessi la potenzialità creativa e relazionale dell'essere, genera la convinzione di non poterne avere il controllo e dipendere da fattori che trovandosi al di fuori di me, non posso richiamare al momento necessario o voluto per realizzarmi, e quindi di non poter dare alcuna garanzia all'amore che generosamente vorrei offrire. Quanto sconforto! Quanta limitazione mi chiedi Lucy in the Sky with Diamonds, per seguirti nei tuoi "paradisi artificiali". Ebbene Lucy lascia che ti dica una cosa: il mio essere domina la realtà e la trascende contemporaneamente senza che tu mi renda schiavo delle tue allettanti promesse. Il mio essere è capace di amare e di relazionarsi con gli altri fraternamente, senza negare se stesso. Il mio essere è capace di accedere al suo potenziale creativo anche senza di te, nel momento in cui finalmente decide e si convince che può nutrire una sana fiducia in se stesso e nelle sue grandi potenzialità, perchè chi l'ha creato, l'ha fatto per cose grandi e tutto il tesoro che tu mi prometti, l'ha già messo dentro di me, e magari ci metterò un pò di più a prenderne consapevolezza, ma lo farò senza limitare la mia preziosissima libertà.

di Federica Colombo

lunedì 19 aprile 2010

Love is All you Need

"We hope the feelings of peace and pleasure that were in this place will flow out into the streets so all can share them." (Mike Lang). Questa dichiarazione di Mike Lang, il produttore di Woodstock, è stata rilasciata alla rivista Life, subito dopo il festival. Le parole sono profonde e affascinanti dopo mezzo secolo, io che amo la musica, che ascolto e amo il rock, io che che desidero la pace e desidero amare e gustare la vita, e ho sempre considerato l'evento di Woodstock, l'espressione di una generazione che voleva fare l'amore e non la guerra, mi chiedo: questa affascinante e profetica frase di Lang, si è realizzata e ha portato a compimento veramente questo elevatissima e desiderabile aspirazione dell'uomo che è la diffusione di vera libertà, pace e amore?
Che ognuno di noi aspiri ad amare ed essere amato, è una verità scientifica, perchè tutti possiamo sperimentarne e verificarne il desiderio. Che ognuno di noi desideri, nel profondo del proprio cuore vivere in una società fondata sull'amore e non sul conflitto e sulla guerra, è un dato che ci trova fondamentalmente unanimi, ma qual'è il concetto di libertà proposto e per cui si è combattuto nella rivoluzione del '68? qual'è il gusto per la vita e per la bellezza che si perseguito? qual'è il fondamento che si è messo alla parola amore?
Se essere libero nella mia sessualità vuol dire lasciarmi dominare dai miei istinti, e ridurre tutto il mio potenziale ad essi, se gustare la vita vuol dire disinibire i miei sensi sotto l'infulenza di altri inibitori, che mi rendono ad essi dipendente, se la società fondata sull'amore e sulla pace, nell'atto stesso in cui si dice "ti amo" si impone di tacere la parola "aperto alla vita"; caro '68, io non ti voglio fare la guerra, e l'amore lo voglio fare eccome, ma sceglendolo ogni volta come atto libero e volontario che non si limita al mio "sentire", e che coinvolge il mio volere e non solo le mie "voglie" e impegna in me tutte le mie facoltà che mi ricordano che sono grande, veramente grande tanto che il mio essere mi trascende. L'amore lo voglio fare, ma senza limitare la mia capacità creativa, senza imporre al mio corpo di non pronunciare la parola "vita", proprio mentre con tutto se stesso nel suo bellissimo linguaggio sta dicendo"io amo la vita e sono capace di dare la vita". E allora,"you say you want a revolution, well you know we all wanna change the world, but when you talk about destruction, don't you know you can count me out".

Servizio di Life.com con le foto più significative di Woodstock:
http://www.life.com/image/ugc1006772/in-gallery/31192/woodstock-lifes-best-photos

di Federica Colombo